Eccomi, pronta a partire. Valigie fatte, macchine pulite e cartine stampate. Una cosa però mi rimane da fare prima di andare: è da qualche giorno che volevo scrivere di alcuni argomenti letti in un articolo scritto da Grazia Neri. Ma poi alla fine ho pensato che il contenuto è talmente ricco di spunti che sicuramente vale la pena leggerlo tutto. Quindi invece di lasciarvi dei pensieri miei che valgono molto poco, vi invito a leggere questo articolo e fare le vostre personali riflessioni. Per chi ha la versione stampataè a pagina 17 del numero 173 di Luglio 2011 della rivista Fotographia, diretta da Maurizio Rebuzzini. Si parla di etica e di fotografia ma non solo. Sono diverse le frasi che mi hanno colpito e alcune le sto usando nello spazio qui a fianco della riflessione del giorno. Tre pagine di pensieri intensi, reali, professionali, fatti da un personaggio che di fotografia ne sa più della media dei fotografi professionisti esistenti ed esistiti (messi insieme). Una persona che a leggerla ti verrebbe veramente voglia di lavorarci assieme. Nonostante alcuni concetti si adattino per lo più alla fotografia di reportage, le sue osservazioni sono acute e i colpi sempre ben aggiustati. Qui le mie preferite:
“Una professione incerta dà più responsabilità.”
“… queste regole […] alcune professionali legate al copyright dovrebbero essere insegnate nelle scuole. Durante lo svolgimento di corsi professionali, mi capita di incontrare studenti digiuni di copyright e diritti. La loro immissione nel mercato è pericolosa per gli altri fotografi. Non conoscere tariffe, diritti e doveri morali dei fotografi danneggia la categoria.”
“Come ci si difende nella grande crisi di identità del fotogiornalismo (troppi fotografi, troppe fotografie, troppi cattivi fotografi, troppo pochi photo editor nei giornali, che non hanno tempo per scegliere e negoziare)?”
“A me, ombre, fotografie sfocate, fotografie inutilmente sovraesposte o sottoesposte rivelano soltanto che il fotografo non sa fotografare correttamente o vuole impressionare.”
“Ho detto spesso che un fotografo non può mettere a fuoco se ha le lacrime agli occhi. Il mio parere è che un fotografo emotivo è inutile come un chirurgo che sviene alla vista del sangue.”
Per non parlare delle regole che dice di aver sempre applicato nella sua lunga carriera elencate alla fine dell’articolo. Tutto quello che un professionista può (e deve) desiderare.
Grazia Neri per Fotographia, numero 173, Luglio 2011.
Grazie per la segnalazione, andrò a leggere tutto l’articolo. Sono d’accordo su molte cose ma non tutte. Ad esempio sono in disaccordo con “Il mio parere è che un fotografo emotivo è inutile come un chirurgo che sviene alla vista del sangue”… mi sembra un paragone molto azzardato!
Ovvio che se l’emotività pregiudica il risultato in maniera negativa, come nel caso del chirurgo, allora l’essere emotivo è dannoso… ma in un fotografo l’emotività può essere anche positiva.
Ciao, a presto.
Se ti capita di parlare con qualche fotografo di guerra o che documenta una di quelle situazioni dove la gente muore di fame… prova a chiedrergli cosa fa lui, come si comporta in quei momenti. Io non potrei mai fare quel lavoro perchè mollerei la macchina dopo due secondi e mi metterei a cercare di aiutare (sempre che riesca a superare lo shock). Probabilmente intralciando la situazione, non sapendo cosa fare, come muovermi, come non recare più danno che beneficio. Invece il lavoro di un fotografo è quello di testimoniare cosa accade nella maniera più “distaccata” possibile così da essere obiettivo e non lasciarsi sfuggire nulla. Il senso è sicuramente questo; non parlo per esperienza diretta ma perchè me lo ha detto chi di queste cose ha vissuto per lungo tempo e ne ha viste di veramente brutte. E se leggi tutto l’articolo apparirà chiaro come Grazia Neri intende dire che solo DOPO aver editato le foto un fotografo si può concedere di star male. In fin dei conti il confronto col chirurgo è perfetto. Essere freddi sul momento del lavoro per non perdere nemmeno un grammo di attenzione. Così io la vedo estremamente coerente. 🙂